In poco più di dieci anni l’azienda di San Francisco ha raggiunto oltre 81.000 città in 191 nazioni con un’offerta che sfiora 5 milioni di locazioni. È una crescita enorme ottenuta grazie a un modello di business innovativo e soprattutto utile. Eppure quello che sembrava un bellissimo esempio di sharing economy ha un lato oscuro che è finito sotto la lente di molti organismi di controllo, della stampa, e di alcune istituzioni. Per diversi motivi.
I 4 grandi problemi di Airbnb.
Appena i volumi si fanno interessanti, la prima domanda che qualcuno si pone riguarda le tasse che un’azienda paga. Con la sede in Irlanda, la controllata in Inghilterra, e le varie acrobazie da finanza internazionale, quante tasse paga Airbnb, e dove?
Poi ci sono i proprietari delle case, ovvero tutti quelli che mettono la loro dimora in affitto e che sono pagati direttamente su Paypall o su Payoneer. Faranno spallucce nel momento in cui compileranno la dichiarazione dei redditi? Questo è un problema di regolamentazione.
Il secondo tema riguarda la source of business: a chi sta pestando i piedi Airbnb?
In principio l’offerta si focalizzava su stanze libere in case abitate, e quindi il bacino di utenza era quello tipico degli ostelli o dei bed & breakfast, ma con un posizionamento più pionieristico e culturale: “sono in casa d’altri, respiro la cultura del posto”.
Ora l’offerta va dalla stanza economica fino all’intera casa di lusso e la forbice dei possibili clienti si è aperta ai viaggiatori abbienti e alle famiglie. Il danno agli albergatori è innegabile e le grandi catene, quando alzano la voce, sono molto più forti di tanti ostelli indipendenti e poco consorziati. Questo è un problema politico.
Ci sono poi città dove si sente parlare di un vero e proprio effetto Airbnb. Sono le mete tipicamente turistiche dove tanti alloggi sono finiti su Airbnb causando un crollo nell’offerta degli affitti “normali”, con una conseguente impennata dei prezzi. Un tema che ha visto l’esclusione dei meno abbienti dai centri cittadini: in alcune città europee, come per esempio a Madrid, se ne parla molto. È un problema sociale.
Ma l’effetto Airbnb ha un altro risvolto interessante. Alcuni centri storici si sono svuotati dei loro abitanti: qualcuno si è fatto ingolosire dalla salita dei prezzi e ha venduto, mentre altri hanno messo il loro immobile in affitto online. A Matera il centro storico si è svuotato, pare che addirittura il 25% degli appartamenti sia disponibile su Airbnb.
Quello che resta è un bel posto senz’anima. E un problema culturale.
(Per chi desidera approfondire l’argomento rimando allo studio “the airifications of cities” condotto dall’Università di Siena.)
Airbnb: un problema di regolamentazione, uno politico, uno sociale e uno culturale pronti a esplodere insieme.
Finora la stampa se ne è occupata in modo discontinuo e l’azienda americana è riuscita a tamponare con manovre più o meno discutibili. Ma il tema inizia a diventare caldo e tra poco si raggiungerà quella massa critica per cui una notizia – anche positiva, come l’entrata in borsa – potrebbe attivare una serie di discussioni con un effetto valanga non più controllabile.
Una veloce occhiata alla struttura del sito e alla comunicazione disponibile online non fornisce indizi di un cambio strategico.
I problemi di regolamentazione e politici sono facili da risolvere. Quelli sociali e culturali no.
I problemi di regolamentazione sono i primi a sorgere, crescono in fretta, ma la soluzione è relativamente semplice e veloce. Ci si siede a un tavolo con le istituzioni e si tratta su quante tasse pagare. Una volta sistemati i problemi di regolamentazione, automaticamente si diventa inattaccabili dal punto di vista politico. Questo tipo di soluzione è molto onerosa e per il momento sembra che a Airbnb non interessi.
I problemi di ordine sociale e culturale sono più lenti e meno visibili. Si insinuano, e quando esplodono è troppo tardi. Sono anche i più difficili da risolvere perché un problema di questo tipo è sintomo di una falla piuttosto grossa nella sostenibilità della strategia. Per sistemare un problema sociale e culturale sono necessari cambiamenti forti che potrebbero toccare il modello di business. Ma non basta. Quando hai cambiato il modello di business devi far cambiare idea alle persone che nel frattempo si sono inimicate. Anche in questo ambito Airbnb fa spallucce, tamponando con campagne pubblicitarie che non rispecchiano la vera anima del servizio.
Quelli di Airbnb sono errori o è tutto calcolato?
Sicuramente nel quartier generale di San Francisco conoscono molto bene la situazione.
Perché non intervengono? Per tirare la corda il più possibile, massimizzando i profitti nel breve e medio termine, per poi fare marcia indietro nel momento in cui una regolamentazione viene imposta dall’alto e diventa inevitabile.
A quel punto l’immagine di Airbnb verrebbe danneggiata dai media e dall’opinione pubblica. Poco male: l’idea di rifare il trucco all’azienda con una massiccia operazione di rebranding potrebbe anche funzionare.
Quando un leader di mercato offre vantaggi molto forti, le persone dimenticano in fretta eventuali défaillance etiche, specie se i vantaggi toccano il portafogli.
Ma è anche vero che quando si finisce nell’occhio del ciclone le strette delle istituzioni si fanno più cattive. Quei passi indietro che l’azienda prima o poi sarà costretta a fare potrebbero costare, sul lungo periodo, più di un lungimirante approccio sostenibile e collaborativo.
Lo sapremo fra cinque o dieci anni.
Sicuramente è poco sano spendere denaro per raccontare ciò che non si è. Andava bene fino agli Anni 90, quando in TV le marche potevano indossare qualsiasi maschera. Airbnb dipinge una comunità che condivide esperienze di vita all’interno di amorevoli quadretti famigliari. Purtroppo non è così. La comunicazione non è coerente con il modello di business e rischia di apparire come un inutile specchietto per le allodole. Ancor di più se dietro a certi profili personali si celano delle vere e proprie società immobiliari.
Il paradosso del brand purpose in un’azienda leader.
La cosa più interessante da notare in un caso come questo è il paradosso che si crea: un’azienda offre una serie di vantaggi o benefici sostanziosi in un mercato privo di concorrenti, generando le condizioni ideali per un purpose vero, perfettamente innestato nel business model, organico e di ampio respiro. Ma più il vantaggio offerto alle persone è grande, più l’azienda può permettersi di ignorare i principi etici e l’idea di seguire un brand purpose.
Al contrario, se il prodotto o il servizio è una commodity, il brand purpose gioca un ruolo fondamentale nella differenziazione e crea valore per la marca. Ma è anche più difficile da innestare nel business model e da far adottare dai manager affinché diventi una bussola che davvero dirige la marca in ogni sua scelta, senza apparire come una dichiarazione patinata a uso e consumo della sola comunicazione.