La progettazione degli spazi di lavoro sta all’azienda come l’urbanistica sta al territorio. Una comunità di professionisti abituati a lavorare in un certo modo cercherà di plasmare il “territorio” secondo le sue esigenze, e viceversa.
Spazio e lavoratori sono un organismo unico che muta nel tempo secondo innumerevoli stimoli.
Su un campione di quasi trenta luoghi di lavoro visitati in quindici anni, sono arrivato alla conclusione che esistono due grandi categorie di azienda, e quindi di utilizzo degli spazi. C’è l’azienda che ha come obiettivo l’innovazione, e quindi abbraccia la cultura del progetto, e quella che rincorre le performance di produzione. Questi sono i due estremi, in mezzo ci sono le sfumature, ma neanche tante.
Nel cercare di riconoscere le due tipologie bisogna evitare alcuni tranelli. L’arredamento, per esempio, a volte è una fregatura: capita di entrare in uffici da favola per poi scoprire che sono luoghi senza contenuto, curati nel dettaglio solo perché l’amministratore delegato ama il design. Ma anche le postazioni cool possono fregare: sono quegli uffici super-personalizzati con pupazzetti e amenità varie che fanno pensare a un luogo espressivo e congeniale. Ma non è la collezione di Pokemon del tuo collega che ti farà lavorare col sorriso.
Per capire gli uffici bisogna osservare le dinamiche sottili che si creano fra le persone, e fra le persone e gli spazi.
L’azienda che insegue la performance di produzione.
La mancanza di cultura del progetto fa sì che questo tipo di azienda finisca per erogare delle commodity. Se è un’agenzia di comunicazione di solito cerca di compensare le sue carenze con un’offerta tecnologica all’avanguardia o con un output grafico molto accattivante. In un periodo in cui la mancanza di senso e contenuto non scandalizza nessuno è probabile che una bravo direttore artistico insieme a un valido CTO riescano a raggiungere degli obiettivi.
Riconoscere quest’azienda è facile, perché le persone sono divise in silos secondo il loro impiego.
Nel caso dell’agenzia di comunicazione c’è l’isola degli account, poi quella dei grafici, i programmatori, i copywriter e così via.
Sebbene a volte ci siano delle riunioni di confronto su un progetto aperto (“hai prenotato la sala riunioni?”), questa disposizione degli spazi finisce inevitabilmente per favorire una lavorazione parcellizzata che aumenta il rendimento ma sottrae valore e coerenza.
Anche l’interazione è ridotta al minimo. Nei casi migliori i professionisti vivono la loro giornata lavorativa in spaziosi loft contemporanei, attorno a grossi tavoli da sei, dodici posti, ognuno nei suoi settanta centimetri quadrati, con le cuffie nelle orecchie per non sentire il vicino che telefona.
Per confrontarsi sul progetto si devono alzare e raggiungere il collega dell’altra isola. Oppure usano Skype. Si chatta da una stanza all’altra, o da un tavolo all’altro. È il suicidio della comunicazione.
In Italia, specie in questo periodo, i budget ridotti e l‘ignoranza di alcuni marketing manager hanno costretto molte aziende di comunicazione a puntare sui volumi e a diminuire la qualità della progettazione. Per questo motivo, purtroppo, le aziende in cui la cultura del progetto è sopravvissuta sono rimaste poche. A spanne, direi meno del cinque percento sul totale.
L’azienda che abbraccia la cultura del progetto.
Qui si lavora col cesello, di giorno in giorno, fino a dare al cliente qualcosa che è bello, funzionale, unico e innovativo. Non si copiano le idee degli altri. I trend sono uno spunto per guardare oltre. La tecnologia è uno strumento, non il fine. Gli abbellimenti grafici sono intesi come un abito, non sono la struttura.
Prima di tutto viene l’idea: il progetto è al centro, e i professionisti sono intorno. Ogni isola di lavoro funziona come una piccola squadra: è indipendente, costruita con figure diverse che si completano tra loro.
In questo tipo di azienda le persone parlano più spesso, ma non di cazzate alla macchinetta del caffè. Lo fanno in modo spontaneo mentre sono sul pezzo, perché sono già nello stesso ufficio o attorno allo stesso tavolo. Si creano delle riunioni estemporanee. Tutti sono sempre aggiornati sull’avanzamento dei lavori e nessuno viene mai lasciato in disparte. Ognuno si sente partecipe e padrone di qualcosa di bello.
E siccome progettare significa prendere carta e penna, o risme di Post-it, e schizzare incollare tagliare disegnare, ecco che le pareti e i tavoli diventano il banco di prova dove prendono vita prototipi e scenari possibili.
È più facile che questi luoghi siano belli piuttosto che brutti. Ma non è la dimensione estetica che conta. È il fermento che si percepisce. C’è chi è concentrato per conto suo, chi ride o gioca, chi si è chiuso in una saletta per condividere uno schema alla lavagna. Succedono tante cose contemporaneamente.
Le persone sono diverse. Non sono tutti cool, o alla moda, o casual, o scazzati. Questi posti stupiscono per la diversità, che è considerata un valore aggiunto.
Poi ci sono le librerie, sempre aggiornate, con riviste di settore e pubblicazioni.
E tu, da quanto tempo non entri un’azienda che ha una libreria?
P.S. Fu Bill Bernbach, attorno agli anni Cinquanta, il pubblicitario che introdusse l’idea di gruppi eterogenei attorno a uno stesso progetto di comunicazione.